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A Napoli il primo bar gestito da rifugiati

Giovani rifugiati e richiedenti asilo sono l’anima del ristobar napoletano Kikana, un vero esempio di integrazione

Si chiama Kikana, e si trova in via del Parco Margherita al civico 12/a: il primo bar gestito da rifugiati è nato a Napoli grazie all’iniziativa della cooperativa Tobilì (premiata lo scorso anno da CoopFond – Unicoop Tirren come “miglior start-up campana) . Il suo nome, nella lingua del Mali, significa “vieni qua”. Ed è in effetti un invito ad entrare, questo luogo votato all’accoglienza, in cui l’integrazione passa per la tavola. E per il buon cibo. Interamente gestito da rifugiati e richiedenti asilo, tutti con un’età compresa tra i 19 e i 32 anni, Kikana offre ai partenopei e ai turisti di passaggio in città la possibilità di scoprire prelibatezze della cucina asiatica e africana.

Dai falafel – le polpettine vegane preparate con crema di ceci e tahina – fino al tabulleh, il tradizionale piatto libanese vegetariano a base di cous cous, in questo ristobar unico nel suo genere è possibile assaggiare inediti accostamenti (ad esempio, il ragù napoletano con l’aggiunta di zenzero), ma anche prenotare per i propri eventi un catering multietnico e partecipare ai corsi di cucina, per imparare a portare in tavola i piatti del Maghreb. Accanto allo chef, Bouyagui (che viene appunto dal Mali), ci sono anche il somalo Shukri Khalif Abdulle e il ventunenne Konaté, che è bravo con le pizze tanto quanto con le ricette tipiche del Sahel. Saeid, iraniano, è invece il barman; Sylla, senegalese, il cameriere; Kassim, del Mali, l’aiuto-cuoco; Jafar, iraniano, si occupa infine dei narghilè.

A Napoli il primo bar gestito da rifugiati

Gestito dall’associazione Narghilè, Kikana non è solamente un bar. E neppure un ristorante. È anche un luogo di musica, di teatro, di danza, di cinema. Il tutto, finalizzato a favorire lo scambio, il dialogo interculturale, l’integrazione. Qui, i migranti saranno coinvolti in varie attività insieme ai cittadini, per abbattere i pregiudizi e dimostrare come – con l’innovazione sociale – si possa fare molto per quei ragazzi che, a bordo di un barcone pericolante, lasciano i loro Paesi sperando di trovare un mondo migliore.