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"Giusto, sbagliato, dipende": la Crusca risolve i dubbi

Giusto, sbagliato, dipende: l’Accademia della Crusca risolve i dubbi sull’uso corretto della lingua italiana, dal “know how” all'asciugacapelli

Il nuovo libro dell'Accademia della Crusca

Giusto, sbagliato, dipende” è il nuovo libro dell’Accademia della Crusca: pubblicato da Mondadori e curato dagli accademici Paolo D’Achille e Marco Biffi, il volume si propone di risolvere i dubbi sull’uso corretto della lingua italiana.

Dalla grammatica alla pronuncia, senza tralasciare neologismi e modi di dire, il nuovo testo della Crusca corregge gli errori più comuni e sfata alcuni falsi miti sulla nostra lingua, in una sorta di atlante che raccoglie – in ordine rigorosamente alfabetico – dubbi e domande giunti nel corso degli anni all’indirizzo dell’Accademia.

Giusto, sbagliato, dipende: la Crusca risponde

L’Accademia della Crusca risponde direttamente ai dubbi linguistici degli italiani da più di vent’anni: a partire dal 1990, l’istituzione fondata a Firenze nel 1585 ha risolto oltre 1.100 quesiti inviati dai lettori. Oggi l’Accademia pubblica una media di tre risposte ogni settimana tra social, riviste online e sito web, fornendo consulenza sugli usi giusti e sbagliati della lingua italiana, affrontando anche tutte quelle circostanze in cui l’unica risposta possibile è “dipende”.

Come ricorda il Presidente Claudio Marazzini, non si tratta di “correggere a colpi di matita rossa e blu, la temuta matita con cui l’insegnante di un tempo segnava gli errori più gravi, i peccati veniali o mortali della scrittura”, anzi. La lingua non è monolitica, spiega l’Accademia, e il suo uso cambia inevitabilmente con l’evolversi della società.

L’aver sdoganato negli anni termini come “petaloso” e “cringe”, da poco inserita tra le nuove parole della lingua italiana, ha fatto storcere il naso a diversi puristi della lingua. Lo scopo dell’Accademia però, spiega Marazzini, è quello di “far amare l’italiano, così com’è, anche nei suoi sviluppi e nella sua evoluzione nel mondo contemporaneo”: ben venga quindi l’uso della parola apericena, meglio se usata al maschile, perché prima della correttezza formale a ogni costo viene l’importanza di una buona comunicazione – che piaccia o meno.

Know how, cybersicurezza e asciugacapelli

Uno degli argomenti che maggiormente infiamma gli animi, quando si parla di lingua italiana, è certamente l’uso degli anglicismi: nonostante la ritrosia di molti, alcuni termini inglesi oggi d’uso comune non hanno una traduzione corrente nella nostra lingua, e quindi bisogna arrendersi ed accettarli per come sono.

Un esempio su tutti è “know how”: sebbene sia un’espressione detestata da molti, spiega la Crusca, è preferibile a qualunque alternativa italiana. È infatti “difficile, se non impossibile, trovare un equivalente italiano che sia in grado, da solo, di sintetizzare il designato nelle sue varie sfaccettature tecniche ma anche non specialistiche”.

Ciò non significa che gli anglicismi vengano accettati con una certa leggerezza: il termine cybersicurezza, per esempio, è giudicato dalla Crusca sonoramente inopportuno, in quanto perfettamente traducibile con “sicurezza cibernetica” e anche perché si ritiene preferibile l’uso del prefisso “ciber” all’inglese “cyber”.

E quello con cui ci si asciugano i capelli si chiama phon, fon o fono? Secondo la Crusca, il modo corretto di scriverlo è proprio quello meno usato, fon: “si tratta infatti dell’adattamento italiano del termine tedesco Föhn, che indica propriamente un ‘vento discendente caldo, secco, sul versante d’una catena montuosa’, ma che viene comunemente usato in tedesco anche per denominare l’asciugacapelli”.

La Crusca e i dubbi ricorrenti: ma però, piuttosto che

Ci sono poi i dubbi ricorrenti sull’uso corretto dell’italiano e quelli sulla pronuncia di alcune parole, come esistono diverse espressioni che sembrano mettere in difficoltà anche i madrelingua più sicuri di essere nel giusto: un esempio classico è quello dell’uso disgiuntivo di “piuttosto che”, ampiamente diffuso nelle regioni del nord Italia, definito dalla Crusca come una “infelice novità lessicale” da respingere fermamente.

Quella di sostituire una “o” con “piuttosto che”, spiega infatti l’Accademia, è un’abitudine che “può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio”.

Al contrario, la famigerata espressione “ma però”, usata anche da Manzoni, e l’uso grafico dell’asterisco per indicare entrambi i generi, rientrano tra le soluzioni che in alcuni casi è lecito usare.

Se il “ma però” è un rafforzativo più che accettabile in determinate circostanze, l’asterisco può essere considerato una valida alternativa nelle comunicazioni a “carattere privato, professionale o sindacale”, mentre non andrebbe usato “in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche. Diverso il discorso per lo schwa, che la Crusca definisce “una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco”, che andrebbe evitata quanto più possibile in quanto non risolutiva e complicata da leggere.