Dolci di Carnevale, non solo chiacchiere: ad ogni regione il suo
Dove sono nate le chiacchiere? A quale santo sono dedicati i tortelli milanesi? Ecco alcune curiosità sui dolci di Carnevale più antichi e famosi
Tra i giorni più attesi dai golosi di tutta Italia, il martedì grasso, come sappiamo, segna la fine del Carnevale. La tradizione voleva che in questa giornata venissero consumati tutti i cibi più prelibati avanzati in casa. Era inoltre l’ultima in cui si potevano gustare i tipici dolci della festa più allegra dell’anno, prima del periodo di digiuno e penitenza.
Fa eccezione Milano dove, secondo il rito ambrosiano, la Quaresima ha inizio la domenica seguente, per cui i festeggiamenti sono posticipati di quattro giorni.
Oltre ad essere famoso per maschere e costumi, il Carnevale è, quindi, un’occasione per lasciarsi andare a qualche peccato di gola in più.
Dai ricettari del Nord a quelli del Sud, il minimo comune denominatore dei dolci tipici di questa festa è che sono quasi tutti rigorosamente fritti. Che martedì grasso sarebbe, altrimenti? Tuttavia, ogni regione ha la sua golosità carnevalesca: a volte cambiano solo il nome o qualche ingrediente, altre, invece, hanno una storia a sé.
I tortelli del Carnevale ambrosiano
Cugini delle più famose castagnole, i tortelli sono golose specialità tipiche milanesi. Denominati in origine “farsòe”, sono nati a Milano per festeggiare il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, il quale era definito nella Bibbia “industriante in friggitoria”. Ben presto sono diventati anche un dolce tipico del Carnevale ambrosiano, il cui impasto ha una consistenza piuttosto fluida, per cui viene immerso nell’olio caldo a cucchiaiate. Durante la frittura, i tortelli di Carnevale aumentano di volume, rimanendo cavi all’interno. Per renderli ancora più golosi, si possono quindi farcire con crema pasticcera, al limone, chantilly o al cioccolato.
Le chiacchiere: romane o napoletane?
Dolce simbolo del Carnevale di tutta Italia, le chiacchiere sono chiamate con nomi differenti a seconda delle regioni.
La loro origine è però controversa. Secondo alcuni studiosi, risalirebbe all’antica Roma, quando, per festeggiare i Saturnali, festività che corrisponde al nostro Carnevale, si preparavano dolci a base di uova e farina chiamati “frictilia”, perché venivano fritti nello strutto.
Tuttavia, c’è chi attribuisce la paternità delle chiacchiere ad un cuoco napoletano, Raffaele Esposito. Costui le avrebbe preparate per la prima volta per la regina Margherita di Savoia, che durante un pomeriggio di “chiacchiere” ebbe voglia di qualcosa di dolce per sé ed i suoi ospiti.
La schiacciata fiorentina
A Firenze non è Carnevale senza la schiacciata, chiamata anche “stiacciata unta”, per l’utilizzo dello strutto.
L’antichissima ricetta di questa morbida specialità toscana è il frutto di una cucina povera e semplice, che sfruttava i pochi ingredienti a disposizione per dar vita a pietanze gustose. La presenza dello strutto e talvolta persino dei ciccioli richiamano alla mente la tipica usanza carnevalesca di preparare pietanze grasse in vista dell’inizio della Quaresima. Secondo la ricetta originale della schiacciata fiorentina, questa torta soffice, bassa e rettangolare, profumata all’arancia e allo zafferano, si decora generalmente con il simbolo della città: il giglio.
Scroccafusi e ravioli di castagne marchigiani
Tipici della zona del Maceratese, gli scroccafusi – così chiamati perché devono “scricchiolare” sotto i denti – sono palline di pasta lessate in acqua bollente e poi fritte, spolverate di zucchero e bagnate con alchèrmes. Le radici di questa ricetta marchigiana sono legate al mondo rurale e ancora oggi si preparano seguendo fedelmente l’antica procedura.
Nel Piceno, non è Carnevale, invece, senza i ravioli di castagne. Ogni famiglia li prepara con diversi giorni di anticipo e anticamente era usanza, per le donne marchigiane, cucinare queste specialità senza dosare gli ingredienti, ma regolandosi “ad occhio”.
Il sanguinaccio lucano
Del maiale non si butta via nulla, nemmeno il sangue, ingrediente originario del famoso sanguinaccio dolce – da cui, appunto, il nome. In molte regioni d’Italia, nel 1992 è stata vietata la vendita del sangue di maiale, per cui è possibile il suo utilizzo, per la preparazione del sanguinaccio classico, solo in loco subito dopo la macellazione. Su richiesta della regione Basilicata, vi sono però alcune eccezioni per il periodo di Carnevale, per cui il sanguinaccio mantiene ancora oggi la denominazione di Prodotto Agroalimentare Tipico (P.A.T.). Sulle montagne e colline lucane, il sangue del maiale macellato viene raccolto, rimescolato e filtrato per evitarne la coagulazione. Dopodiché, si versa nella caldaia di rame, aggiungendo cioccolato fondente, caffè, cacao, zucchero, cannella, chiodi di garofano, uva passa e sugna.
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